Fundraising in Calabria?: “Ma tanto non c’è la mentalità. E poi la gente non ha soldi. In Calabria questo non lo farai mai”. E ancora: “Ma perché io devo andare a chiedere l’elemosina?” oppure, “Ma quello è tirchio non ti darà mai i soldi” e l’inflazionato “Sì, non hai capito che sono in fallimento” o l’intramontabile “Le persone non si fidano, voi delle Associazioni rubate i soldi”. Quella che, invece, non avevo mai sentito: “Se ti dona deve far girare soldi sporchi”. E infine quella che io tollero pochissimo è “Te l’avevo detto!” La odio perché oltre a essere pessimista e negativa, è pure egocentrica.
È vero, ho sentito più volte frasi come queste, ma è anche vero che con tanto impegno qualcosa si muove. In estrema sintesi credo che il fundraising in Calabria già si faccia, ma senza conoscerne le tecniche. Richiede quindi, a mio avviso, un profondo cambiamento culturale e un lungo lavoro di semina.
Poiché questo blog è nato per raccontare le nostre esperienze, lungi da me scrivere con l’arte del fundraising (in Calabria) in tasca, condivido qualche aneddoto su come sono andate e come vanno le cose. Sono a Trebisacce da giugno 2016 ed è soprattutto da qui che racconto il mio punto di vista.
E molto presto chiederò anche a qualcuno che non avrebbe bisogno di presentazioni, la sua opinione. Massimo Coen Cagli, oltre ad avere molta esperienza di raccolta fondi nel Sud Italia, lo scorso 8 ottobre ha organizzato un seminario gratuito a Crotone (la città di Pitagora, non solo della ndrangheta!). Non siete curiosi di saperne di più?
Fundraising in Calabria, il corporate
A luglio 2016, grazie a un evento organizzato da Startup Calabria e #lacalabriacherema, ho presentato il progetto di una neonata start up, l’Associazione Let Be Children, ad alcuni imprenditori calabresi. Uno di loro ha subito mostrato la sua volontà di sostenerci. Immaginate la gioia? Quel primo sì è stato un grande dispensatore di adrenalina e desiderio di tentare con altri imprenditori.
Tutti hanno mostrato interesse e dopo circa sei mesi di corteggiamento e negoziazione quel primo apprezzamento si è trasformato nella prima donazione importante ricevuta da Let Be Children. E c’è poi stata un’altra importante donazione in kind e con gli altri c’è da lavorare. Molto.
Cosa mi ha colpito: Innanzitutto il pessimismo cosmico che aleggiava intorno a me, ovunque. Potrei sbagliarmi, ma credo che praticamente tutti mi abbiano messo in guardia sull’impossibilità di coinvolgere le aziende calabresi a donare e, per ogni no, arrivava puntuale un “Te l’avevo detto”. Persino un imprenditore – che poi ha donato – alla mia richiesta di donazione regolare mi ha detto “In Calabria questo non lo farai mai!”. Inoltre, la maggior parte dei potenziali donatori, dopo la mia prima proposta, ha evidenziato il poco interesse a dare visibilità alla donazione. Una reticenza dovuta a un retaggio culturale del tipo tidonoperaiutartinonpervantarmi? Forse. Però è l’esatto contrario di quello che mi sono sentita dire da un’azienda a Milano: “Parliamoci chiaro, noi non facciamo beneficenza, vogliamo qualcosa in cambio”.
Cosa ha funzionato: Continuare a provarci, ripetendo a me stessa (e ai disfattisti) che non mi sarei fatta influenzare senza aver tentato. Ricordando che la maggior parte delle persone non dona perché nessuno glie lo chiede. E rispondendo che la beneficenza richiede fortemente di essere raccontata e messa in risalto per una semplicissima ragione: spirito di emulazione.
Donatori privati (e regolari)
Let Be Children è nata grazie a un obiettivo raggiunto: oltre 100 donatori regolari che hanno aderito alla campagna nazionale Sporcatevi le Mani. Tutti coinvolti con il One to One e con il passaparola. In soli tre mesi. E la cosa più straordinaria è che una risposta simile alla campagna, in un tempo così breve, non era mai avvenuta prima in Italia. A dimostrare l’esistenza di una Calabria che, se chiamata all’azione, risponde. Eccome se risponde!
Cosa mi ha colpito: La diffusione quasi virale delle donazioni. La forte volontà a impegnarsi per un progetto a favore di bimbi con autismo del nostro territorio. E poi, se due anni fa, quando come lavoro finale del Master di Forlì ho studiato un piano di raccolta fondi della Fondazione I Bambini delle Fate, la più lungimirante delle profezie mi avesse predetto che mia sorella sarebbe diventata una sua volontaria e che lei avrebbe coinvolto 100 donatori regolari, avrei fatto fatica a immaginarlo.
Cosa ha funzionato: Gli elementi andati bene sono sicuramente molti, ma quelli su cui non ho dubbi sono: la territorialità del progetto, l’Appeal che i volti noti di Franco e Andrea hanno avuto nel nostro Paese, la causa molto forte – se si pensa che prima della campagna alcune persone non sapevano che a Trebisacce vivono ragazzi con autismo – la possibilità di condividere su Facebook le foto dei donatori con le mani colorate e last but not the least, la motivazione e la determinazione della volontaria in questione.
Crescita organizzativa, questa sconosciuta
Il punto più nodoso, per me, riguarda l’organizzazione. La premessa è che, avendo imparato a mie spese quanto una cattiva organizzazione e una pianificazione non messa in pratica siano causa di fallimento, forse ho pigiato più del necessario sulla questione. Let be Children però è nata da zero e già questo richiede un grande impegno, inoltre, di solito, il rovescio della medaglia di persone molto motivate o molto brave nel peopleraising, è che vanno a ruota libera. Così ho fatto davvero molta fatica a impostare un metodo di lavoro di squadra. E ancora oggi credo sia non soddisfacente. A volte è accaduto che il fraintendimento e il dimenticato abbiano primeggiato oppure che la raccolta fondi fosse relegata alla mera richiesta di soldi per cui IoMiVergogno. E ancora: che in qualsiasi momento del giorno, tutti i giorni, ogni cosa potesse essere comunicata, su qualsiasi canale comunicativo possibile.
Cosa mi ha colpito: Il ritrovarmi a ripetere continuamente che il fundraising non è richiesta di elemosina, ma è cercare qualcuno che sia innamorato o che si innamori del tuo progetto e da lì gentilmente condurlo a sostenerti, grazie ad azioni organizzate. Il dover ripetere l’importanza (quando non anche il significato) del lavoro di squadra e la sacrosanta suddivisione dei ruoli.
Cosa ha funzionato: l’adrenalina e la motivazione della squadra! Se da un lato a volte si remava a casaccio, spessissimo proprio il crederci in squadra ha portato a creare consensi, a diffondere la Mission e a ottenere buonissimi risultati.
Mi sono dilungata un po’. Agli audaci arrivati in fondo alla lettura chiedo se avete esperienze dirette di fundraising in Calabria o se avete domande per capire – io per prima – di più. E anche i suggerimenti sono ben accetti, fatevi pure avanti.
Che si possa fare raccolta fondi in Calabria in maniera più strutturata, personalmente, non ho dubbi, ma credo che il cambio culturale vada instillato poco alla volta, sopratutto con i fatti e meno con la teoria, almeno per il momento. E in futuro magari sarò io a esclamare: “Te l’avevo detto!”
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