Qualche settimana fa, complice anche i post di Raccontafondi, sono stata contattata da un ragazzo che mi chiedeva informazioni sul Master in Fundraising di Forlì. Da ex allieva soddisfatta sono sempre felice di fare quattro chiacchiere e dispensare qualche consiglio, sopratutto perché mi interessa molto capire le motivazioni che spingono qualcuno a frequentare un corso universitario di questo tipo. Vuoi fare il fundraiser perché “è il più bel lavoro del mondo”? O perché “il mercato del lavoro sembra promettente”? O ancora “per dar voce alle aspirazioni più profonde?” Vi stupirete, forse, nel sentire che le risposte sono abbastanza varie, ed è anche per questo che sto scrivendo questo post approfittando della quiete di agosto: così, con i piedi a mollo e la panza al sole, potete riflettere con calma e arrivare a settembre con le idee chiare ( le iscrizioni al Master scadono il 7 dicembre, c’è tempo).
Fundraiser tuttofare o specialista?
Questa, forse, non è la prima domanda che vi farete, ma sicuramente dovrete spenderci qualche minuto, se non qualche ora. Anzi, vi dirò di più: quando cercherete un tirocinio questa è una delle riflessioni più importanti che sarete chiamati a fare. Lo dico con coscienza di causa, perché io sono stata la prima a non dedicarvi la dovuta attenzione, e solo grazie ad una botta di c…fortuna sono riuscita a rientrare sui binari “giusti” per la mia formazione professionale.
In Italia la maggior parte del Terzo Settore ruota intorno a piccole/medie associazioni. Concretamente questo si traduce in un ufficio fundraising inesistente, o composto da 1/2 persone al massimo (aspettiamo con ansia il secondo censimento dei fundraiser per vedere i dati aggiornati). Qui, il fundraiser è una figura tuttofare, che cambia cappello più volte al giorno, passando dal mailing ai banchetti di Natale, con un saluto ai grandi donatori e un’occhiata alla campagna 5×1000. Incredibile ma vero, il più delle volte gli vengono richieste competenze in comunicazione, grafica, social media, ufficio stampa, sviluppo CMS e guida di mezzi pesanti (tutto vero, a parte l’ultima, forse).
Io appartengo a questa prima categoria di fundraiser, e ne vedo bene i pregi e i difetti: da una parte vi è l’indubbia certezza di non annoiarsi mai, perché il lavoro da fare è sempre tanto e sempre diverso. Dall’altra, manca spesso la possibilità di confrontarsi con i colleghi (per questo il Festival del Fundraising è fondamentale!) e si convive perennemente con la sensazione di non saperne mai abbastanza di un determinato campo. Come si fa a fare tutto senza essere approssimativi? Il rischio c’è, ma d’altra parte un corso in miracoli non l’hanno ancora inventato.
D’altra parte, il fundraiser può scegliere di specializzarsi: molti miei ex colleghi di master hanno scelto di diventare professionisti dei mailing, del face-to-face, dell’acquisizione da individui. In questo caso, il bacino naturale in cui cercare un tirocinio e un lavoro sono le grandi organizzazioni, strutturate al punto da avere uno staff e diversi uffici diversificati tra loro. Il “contro” è rappresentato dal fatto che cambiare settore diventa poi difficile, proprio in virtù dell’alto livello di specializzazione: se per anni ti sei occupato di mailing, è probabile che ti verrà riconosciuta quell’esperienza, mentre potresti dover ripartire da zero qualora volessi cambiare ambito. Il mio consiglio è quindi quello, forse scontato, di tener conto dell’attitudine personale sul lungo periodo. Per quanto tu possa essere attratto da lavorare per una grande organizzazione sarebbe un peccato dover scoprire, nel tempo, che gli abiti dello specialista ti stanno stretti!
E il mercato del lavoro?
Sicuramente non succederà che, usciti da master, verrete assaliti da decine di organizzazioni. Come per tutti i lavori, molto dipende da una serie di fattori che si incrociano tra loro, e più siete flessibili e vi siete mossi con intelligenza, più avrete chances di essere la persona giusta nel posto giusto.
- Fate volontariato: fatelo prima, molto prima di iscrivervi al master! Se siete stati volontari avrete le idee molto più chiare sui meccanismi che muovono le organizzazioni non profit, ne conoscerete i tempi e le necessità, saprete usare il loro linguaggio e rispettarne le dinamiche. Di questo ne sono davvero convinta: si può scegliere di fare il fundraiser per mille motivi, ma più si è ( o si è stati) vicini alla realtà del mondo non profit a prescindere da motivazioni di tipo professionale, meglio è!
- Conoscete il territorio, siate flessibili: è indubbio che le città del Nord siano le più dinamiche per quanto riguarda il mercato del lavoro. Le grandi organizzazioni, poi, si concentrano sopratutto su Roma e Milano. Se, come me, abitate a Torino, è possibile che non si apra una posizione di lavoro per mesi. Se abitate al Sud potrebbero passare anni. Ma non disperate, le cose stanno cambiando, e sono molto ottimista per il futuro. Tuttavia, nel momento in cui scrivo, il mio consiglio è quello di seguire con attenzione i siti di job placement per il Terzo Settore (uno tra tutti, l’ottimo Job4Good), per farsi un’idea anche delle zone più ricche di offerte. Ovviamente, più fate volontariato e siete attivi in queste realtà, più sarà facile proporvi spontaneamente per un tirocinio (retribuito!) che magari, chissà, diventerà una collaborazione più duratura.
- Coltivate competenze trasversali: un corso come social media, la capacità di gestire un sito in WordPress, il laboratorio di teatro che avete seguito l’anno scorso. Tutto fa brodo, tanto per usare un luogo comune. Le piccole e medie organizzazioni sono assetate di conoscenze trasversali e vivono di “cuggini” proprio perché hanno uno staff ridotto all’osso. Più dimostrerete di saper fare anche “altro”, più le organizzazioni si sentiranno pronte a scommettere su di voi. E non dimenticate di formarvi in futuro: un corso di specializzazione, un laboratorio, un’esperienza formativa anche in un settore diverso dal fundraising arricchiranno il vostro bagaglio professionale ed umano (e si sa, nel nostro lavoro le relazioni contano moltissimo…).
Ok, ma quanto guadagna un fundraiser?
In Italia parlare di soldi è un tabù. Lo è a proposito delle donazioni, ma lo è a maggior ragione quando si parla di stipendi e retribuzioni. A mio avviso, è un tabù che deve sparire, perché solo facendo chiarezza riusciremo a dar voce alle legittime aspirazioni di quanti mettono la loro professionalità al servizio del mondo non profit. Allora, quanto guadagna un fundraiser? Cominciamo confermando una cosa: il terzo settore non brilla per retribuzioni elevate. Da qui l’idea – errata – che solo chi se lo può permettere riesce a lavorare nel non profit. Non è vero, tuttavia il vostro primo contratto sarà con molta probabilità a tempo determinato, tra le 20 e le 30 ore a settimana, e oscillerà tra i 500 e i 1000€ al mese. In alcuni casi avrete anche bonus per obiettivi raggiunti, tredicesima e quattordicesima. Man mano che acquisirete esperienza, la retribuzione può salire a 1600-1800€ come responsabile fundraising di una piccola/media associazione, con contratto full-time.
Questi sono dati che ho ottenuto, in media, confrontandomi con alcuni colleghi, ma sono curiosa di sapere anche la vostra in merito. Vi aspettavate di più? Di meno? Vi lascio intanto con alcune riflessioni e ricerche, alcune un po’ datate, di stimatissimi colleghi ed amici.
Qui quella di Luciano Zanin, consulente ed ex presidente di Assif (articolo del 2007)
Qui quella di Riccardo Friede (articolo del 2014)
Qui invece trovate una ricerca del 2005 di Valerio Melandri e Francesco Santini (ma le cose non sembrano molto cambiate)