Caro professor Melandri,
ho letto poco fa il suo ultimo post e anche se di solito concordo con lei, questa volta ho qualcosa da dirle.
Il fundraiser che si innamora della sua brochure, non raccoglie soldi. La nonprofit che si innamora della propria comunicazione, non comunica affatto. Come il fotografo che si innamora della sua bravura, fa solo autoscatti.
Ha ragione, professore, ma il problema è un altro, forse.
Quando sono entrata in Fondazione Ricerca Molinette, non esistevano brochure. Non esisteva un sito web, una pagina Facebook. Non esisteva nemmeno un ufficio. Praticamente, agli occhi del mondo non esisteva la Fondazione.
Ho passato giorni e giorni a lavorare su WordPress per mettere in piedi un sito che fosse qualcosa di più che solo “decente”. Ho mandato una richiesta al mese per avere un ufficio di rappresentanza. Ho seguito un corso di grafica per tre mesi, tutti i martedì, dalle 18.30 alle 23, dall’altra parte della città, perché no, noi un grafico non ce l’avevamo e non potevamo permettercelo. E lo sa meglio di me, professore, che nel 2016 nessuno, nemmeno una piccola non profit come quella in cui lavoro, può permettersi di non comunicare, tanto meno di comunicare male.
Io sono quel fundraiser innamorato della propria brochure. Non so ancora se grazie a quel volantino, inserito in un mailing scritto, elaborato e progettato da me, riuscirò a raccogliere fondi, ma so che quella brochure era necessaria più che mai per far uscire la Fondazione nel mondo in un modo che fosse dignitoso, coerente, utile. Ma c’è di più.
Io so bene che questo non dovrebbe essere il mio lavoro. Io dovrei occuparmi di relazioni, di pianificazione, di strategia, al massimo di banchetti. Ma è questa la realtà.
La maggior parte dei fundraiser che lavorano come interni in una piccola/media organizzazione sono one-man-band, tuttofare nel vero senso della parola: non sono l’unica, lo può immaginare, a barcamenarsi tra le mille attività che un ente non profit in fase di startup richiede, e molte di queste non hanno direttamente a che fare con il fundraising.
E allora, caro professore, mi lasci quei due minuti di autocompiacimento davanti a una brochure ben realizzata. Mi lasci guardare con soddisfazione una campagna che esce dagli slogan triti e ritriti per andare davvero tra le persone. Mi lasci innamorare un poco di quello che scrivo, del come lo scrivo. Perché se non sarò io a dirmi “brava” una volta ogni tanto, non lo farà nessuno. Perché noi fundraiser siamo spesso ancora solo “quelli che devono portare soldi”, ed è certamente vero – questo è ciò per cui sono pagata – ma il più delle volte non veniamo messi nelle condizioni per farlo bene, il nostro lavoro, in primis da quello stesso CdA che ci ha assunti. Non sarà una brochure ben fatta a dar senso alle mie giornate, ma mi creda, a volte è una pacca sulla spalla che aiuta.
Ed è per questo che mi sento molto più vicina alla bella soddisfazione di Valeria, che sul gruppo di Fundraiser d’Italia scrive: “Per me ogni piccolo passo nel fundraising è un grande passo. Stasera ho presentato la mia prima brochure lasciti solidali (realizzata per la Fondazione della Comunità Salernitana onlus) e mi fa piacere condividerla con tutti voi!” Perché capisco il suo orgoglio, vivo con lei le incertezze, le ricerche, il tempo speso dietro a quella brochure, a quel volantino.
Glielo dica, ai 70 ragazzi che proveranno le selezioni per il master: fare fundraising è un lavoro bellissimo, che io non cambierei mai, ma è una professione che spesso comporta anche solitudine, attesa, frustrazione. E poi gli faccia i migliori auguri da parte mia, perché se alla fine sono qui lo devo certamente al master e a quella passione che ha saputo trasmettermi e che anni dopo ancora non si è spenta.